
“Ma io lavoro per non stare con te”
Otto parole che non è possibile leggere senza cantare. È quello che succede con i pezzi immortali della musica italiana, quelli che si cantano ai falò o nei lunghi viaggi in macchina nel traffico estivo. Ma Colapesce e Dimartino, lo dice bene il titolo del loro album d’esordio, sono più mortali che mai.
Sebbene nelle ultime settimane “Splash!” stia scalando faticosamente le classifiche nostrane con un ritornello killer che si insinua facilmente nelle orecchie dei malcapitati, la storia del duo siciliano sembra un film già visto.
Inutile rifarsi ai vari Vasco e Tanani, Lorenzo Urciullo e Antonio Di Martino non sono iscritti al club dell’ultimo-posto-sanremese, al Club Tenco, piuttosto. Si tratta di due navigati della scena indie, due artisti con una carriera più che dignitosa e una reputazione da difendere. Altro che ultimi arrivati.
Così, da cantautori esperti quali sono, si sono spremuti come limoni per buttar giù un classico. E, forse, ci sono riusciti. Succede quando la critica ti premia e, per qualche curioso motivo, una studentessa universitaria, sua madre e sua nonna canticchiano il motivetto che hai scritto.
Amore (“ma l’entusiasmo poi se ne va”) e lavoro (“preferisco il rumore delle metro affollate a quello del mare”). In fin dei conti è una canzone su temi inconciliabili perché nella vita reale, fuori dalle canzonette, sono due cose che insieme non riescono a starci.
Svelato l’inganno. Se “Musica leggerissima” è riuscita ad essere l’inno nazionale dell’epoca covid, raccontandoci di solitudine, depressione e alienazione – e come uscirne fuori in uno schiocco di dita –, “Splash!” raccoglie il testimone di una tradizione musicale che parte da Tenco e arriva a oggi. Parliamo delle canzoni di malamore. Un genere sotterraneo che, tra chi ha scritto in italiano, ha contagiato solo i migliori.
“Di che mi amerai, di colpo o corruzione? / Soffiando il cuore, infiammandomi il polmone / Un segno sulla coscia la tua bocca migliore”
In ordine sparso. “Malamore” è un brano del 1979 di Enzo Carella, cantautore romano praticamente sconosciuto, riesumato da una versione di Riccardo Senigallia quarant’anni dopo per un film Netflix con Scamarcio ma che – guardacaso – era stato già coverizzato da Colapesce in quel “Meraviglioso declino” del 2012 (nell’edizione deluxe dell’album).
“Se telefonando io potessi dirti addio / ti chiamerei”
Nel 1966 esce una canzone scritta da Ghigo De Chiara e Maurizio Costanzo, arrangiata da Ennio Morricone e cantata da quella che secondo la leggenda Louis Armstrong definì la “più grande cantante bianca del mondo”. È tutta un periodo ipotetico che nessuno è mai riuscito a spiegare ma che in fondo tutti hanno capito.
“Viveva senza il sogno di un amore / ma un re senza corona e senza scorta / bussò tre volte un giorno alla tua porta”
E se non ci fosse stata Mina a cantare “La canzone di Marinella” forse non avremmo avuto De André, che raccontava in un’intervista a Mollica che il brano: «È nato da una specie di romanzo familiare applicato ad una ragazza che a 16 anni si era trovata a fare la prostituta ed era stata scaraventata nel Tanaro o nella Bormida da un delinquente. Un fatto di cronaca nera che avevo letto a quindici anni su un giornale di provincia. La storia di quella ragazza mi aveva talmente emozionato che ho cercato di reinventarle una vita e di addolcirle la morte». Un re “senza corona e senza scorta” a bussare per cent’anni alla porta di un’innocente annegata. Un antidoto al narcisismo di certi amanti.
“18 anni sono pochi / Per promettersi il futuro / Ma tutto quel che voglio, dicevo / È solamente amore”
Antonello Venditti nel 1978 scrive un oroscopo che funziona da quasi cinquant’anni. Un brano che basterebbe per fare un film. Poco importa chi sia Marina o Giovanni – “All the lonely people / Where do they all belong?” canterebbe McCartney –, le vite descritte sono come la nostra: gli amori chiassosi dell’adolescenza, il silenzio della maturità e un conto di violenza e tenerezza da saldare alla fine della canzone.
“La sensualità delle vite disperate / Ecco il dono che io ti farò / Donna che stai entrando nella mia vita / Con una valigia di perplessità / Non avere paura che sia già finita”
Il malamore, però, non riguarda solo un passato di rimorsi e rimpianti. Paolo Conte cristallizza l’inizio incerto di alcune storie in un “Gelato al limon” e dipinge un finale pugilistico in “Sparring partner”. Un amore dove si incassano colpi su colpi può diventare un flusso di immagini incantevoli – come lo “sguardo-veranda” e la “calma-tigrata”.
“Siamo seduti in una stanza / Di un palazzo di giustizia / Tu sei pazza, vuoi spiegare / Una vita con due frasi”
In un mondo ideale Piero Ciampi non avrebbe bisogno di alcuna presentazione, ma il destino inclemente ha condannato il cantautore livornese a una damnatio memoriae senza pari – sebbene i colleghi lo cantino e lo decantino tutt’ora. È “In un palazzo di giustizia” che viene messo in scena il malamore di Ciampi. L’ambientazione perfetta per mettere alla sbarra un amore che deve difendersi dalle accuse di ambo le parti.
“Ancora qui a domandarsi e a far finta di niente / Come se il tempo per noi non costasse l’uguale / Come se il tempo passato ed il tempo presente / Non avessero stessa amarezza di sale”
Ad aggiungersi al filone giudiziario di questa playlist amarissima ci sono la “Canzone delle domande consuete” di Francesco Guccini e a buon diritto “Scivola, vai via” di Vinicio Capossela. Entrambe del 1990, descrivono quella lotta dialettica tra sé e ciò che resta dell’altro-amato per conquistare finalmente il disamore: quello stato dell’anima in cui “i ricordi vecchi” ci lasciano dormire in pace.
“Amarti m’affatica, mi svuota dentro / qualcosa che assomiglia a ridere nel pianto / Amarti m’affatica, mi dà malinconia / che vuoi farci, è la vita”
Il pezzo più emblematico di questo piccolo viaggio agrodolce è stato scritto in campagna a Cerreto Alpi (Reggio Emilia) da uno sciamano del punk italiano che porta il nome di Giovanni Lindo Ferretti. Nel silenzio dell’aia di casa sua nasce una milonga amarissima, portata al successo nazionalpopolare da Gianna Nanni nel 2004. È un giro minore, com’è d’obbligo in questa tracklist di amori difficili, che si adatta facilmente al rock più svogliato – come nella versione di Sanremo dei Maneskin con Manuel Agnelli – o al tango voce e fisarmonica – nella cover della Rappresentante di Lista.
“Il lasso di tempo in cui non lavoro mi dedico a te / ma a dirla tutta lo faccio soltanto per me”
“Sospesi” è un brano di Colapesce del 2017, pieno di una malinconia dolcissima. Un lavoratore, forse un impiegato, che si prende le meritate ferie “dal 20 al 28 dicembre” per passare un po’ di tempo con la persona che ama. E la cosa più normale della terra diventa di una serenata (al rovescio), se non fosse per un giro di piano così sospeso – e una parte di batteria clamorosa – che ci lasciano intendere il peggio.
“Sarebbe bello non lasciarsi mai / ma abbandonarsi ogni tanto è utile”
Ci voleva Dimartino per dire quello che pensano tutti ma nessuno ha mai avuto il coraggio di cantare. Con “Non siamo gli alberi” la sua carriera nel 2012 prendeva la piega giusta e ci diceva già come sarebbero andate le cose per il cantautore siciliano.
Alla fine si è sempre in bilico tra “Io lavoro e penso a te” e “Mi sono innamorato di te / perché non avevo niente da fare”.