Rashōmon – L’arte della Menzogna
Il film capolavoro del regista giapponese Akira Kurosawa commentato per noi da Paolo Colucci

Nel 1915 Ryūnosuke Akutagawa pubblica sulla rivista della facoltà di Letteratura Inglese dell’Università di Tokyo il racconto Rashōmon (La porta di Rashō). Sette anni dopo, con Yabu no naka (Nel bosco), Akutagawa stravolge i paradigmi narrativi del Giappone del suo tempo.
Dopo due secoli in cui il Paese del Sol Levante è rimasto chiuso nel suo bozzolo, il periodo Meiji (1868-1912) è segnato dalla politica di rinnovamento di un sovrano illuminato che promuove un costante dialogo con il mondo occidentale.
Anche nella letteratura si affermano i modelli del naturalismo e del romanzo autobiografico, sopra tutti lo shishōsetsu (romanzo dell’io). Non sembrano esserci alternative alla rappresentazione univoca del mondo.
Akutagawa, però, ha qualche vantaggio. Ha un mentore, Natsume Sōseki, che lo incoraggia quando è ancora uno scrittore alle prima armi. Ma soprattutto ha un dolore. Perde i genitori anziani troppo presto e viene adottato da una famiglia che – fortunatamente – ha una biblioteca. Così si perde nei labirinti di Poe, Swift, Baudelaire e Dostoevskij finché il suo unico problema sarà quello di non dissipare il proprio talento, di mantenerlo vivo, pena la perdita di significato del suo stare al mondo. Un’identificazione tale tra la vita e l’arte non poté che generare le perle scure che sono i suoi racconti. Tra il terrore d’acquisire l’isteria materna e quello di perdere l’ispirazione, nemmeno il misterioso avvicinamento alla figura di Cristo, di cui parla in alcuni scritti, riuscì a salvarlo dal suicidio appena trentacinquenne.
Nel bosco, scardina il primato della narrazione univoca – omodiegetica – aprendo un ventaglio di voci che ci offrono la loro narrazione, soggettiva, parziale, intima.
Akira Kurosawa rimase stregato dal meccanismo a specchi di Yabu no naka tanto da decidere di trasporlo nel classico Rashōmon. Come nell’omonimo racconto, la vicenda muove dalle rovine della porta di Rasho, dove un bonzo dal logoro kimono blu conversa con un passante e un boscaiolo. La pioggia batte violenta sul gigantesco rudere e ai personaggi sconsolati non resta che ascoltare lo scroscio continuo dell’acqua e raccontarsi qualche storia.
“Non capisco il perché,” dice il boscaiolo.
“Com’è possibile, proprio non riesco a capirlo!”
“Ma cos’è che non capisci?” gli chiede il passante.
“Un fatto così strano”
“Perché non ce lo racconti? C’è anche un prete qui!”
“No, neanche i nostri abati più saggi ci vedrebbero chiaro questa volta,” dice il bonzo. “Gli uomini sono un vero mistero per i loro simili […] Siamo stati alla polizia, un uomo era stato ucciso […] Guerra, tifoni, terremoti, fame, epidemie… Quanti mali quanta miseria per tutti. Non passa un giorno senza che bande di briganti vadano in giro a saccheggiare. Non so quanti uomini ho visto schiacciati come insetti con questi occhi. Eppure, un fatto come questo è la prima volta che lo sento. È terribile perché uccide la fiducia negli uomini. È peggio dei banditi e della morte”
“Prete, la predica proprio no!” fa il passante rivolto al bonzo. “Se devi affliggermi così preferisco sentire il rumore dell’acqua”.
La civiltà del passato si sta lentamente dissolvendo. Quando Akutagawa scrive questi racconti il Giappone delle geishe e degli shogun sta crollando come un’architettura fragile travolta dalla modernità. L’assassinio del samurai Takehiro Kanazawa sarebbe passato del tutto in sordina se a morire con lui non fosse stato anche il suo onore. Onestà e giustizia, coraggio, compassione, gentilezza, sincerità, senso di responsabilità e onore, sono i valori fondamentali del codice buddista dei guerrieri (bushido).
Il samurai, sconfitto prima ancora di battersi a duello, ha già perso ciò che ha di più prezioso in vita. È stato legato come una belva ammansita dal brigante Tajōmaru che gli ha promesso specchi e spade a buon mercato lì nel folto della foresta. È stato disonorato da Masago, la vergine che ha preso in sposa, e infine ucciso e derubato. Nulla può la sua deposizione post mortem tramite una medium: il suicidio per salvare l’onore perduto è suggestivo ma finto – come a dire che gli uomini mentono anche da morti –.
Il bandito, ben noto per le sue malefatte, è l’incarnazione della depravazione più assoluta. In un passo dice:
“No, uccidere un uomo non è così grave per me. Per avere una donna è sempre necessario ucciderne il marito. Solo che io per ucciderlo uso la spada che sta al mio fianco, voi non usate la spada ma usate il potere, il denaro, parole ambigue. Certo, in questi modi non scorre il sangue e l’uomo continua a vivere, ma voi lo avete ugualmente ucciso. Se consideriamo la gravità del delitto, qual è il peggiore? Il mio o il vostro? Chi può dirlo?”
E se la questione morale risulta già intricata, Masago entra in scena con una testimonianza falsa e struggente a mescolare le carte definitivamente.
Prima di Kurosawa, nel cinema giapponese si potevano incontrare solo tre tipi di donne: la ribelle (vendicativa per natura, reagisce con tenacia prima d’essere sconfitta), la principessa (che costretta ad abbassarsi a compromessi riesce a preservare la propria purezza) e la sacerdotessa (che ama con devozione il proprio uomo diventandone la guida morale e spirituale). Dai tre racconti Masago acquista invece una profondità e una complessità che le permettono di emanciparsi da queste antiche categorie. Il brigante ne scorge il viso da bodhisattva attraverso il velo che la protegge da sguardi pericolosi. Piange lacrime amare durante la sua deposizione davanti al giudice. Si abbandona ad una risata malvagia quando tiene i due uomini in suo pugno.
Lei, come ogni personaggio di Akutagawa, è caratterizzata da un’insondabilità che ci impedisce di carpirne la vera natura, le reali intenzioni. Sarebbe un peccato ridurre queste donne e questi uomini a semplici figurine bidimensionali che interagiscono per mano di un abile marionettista. Ma sentitevi liberi di farlo.
L’uomo del primo racconto (La porta di Rasho) decide di fare il ladro in un pessimo giorno della sua vita. E quando si trova davanti una vecchia, sotto la porta di Rasho, che su un tappeto di cadaveri tira via i capelli ad una morta, gli viene il dubbio che fare il ladro non sia proprio una gran cosa.
“Certo, portar via i capelli a un morto è sicuramente un gesto riprovevole, eppure tutti questi cadaveri se lo meritano. Per esempio, la donna a cui ho tolto i capelli divideva serpenti in quattro parti, li asciugava e andava a venderli all’accampamento delle guardie spacciandoli per pesce secco. Se non fosse stata uccisa dall’epidemia, a quest’ora venderebbe ancora il suo pesce secco […] gli dice la vecchia. Quindi quello che ho fatto io non può essere considerato una cosa negativa, anche io l’ho fatto perché altrimenti morirei di fame. Sono sicura che quella donna, che conosceva bene queste situazioni estreme, mi avrebbe perdonata,” gli dice la vecchia.
“Ah, davvero? Quindi se io ora ti derubassi, non mi rimprovereresti, visto che se non lo faccio morirò di fame,” le risponde il disgraziato prima di passare ai fatti.
Certo è che da allora nessuno ha ancora scoperto qual è “il crimine giusto per non passare da criminali”. Ma in quanto a perdersi tra le mille e uno versioni di una storia tanto chiara quanto un omicidio con movente, prove, testimone e reo confesso, di strada ne è stata fatta tanta. Si pensi alla recente pandemia. Davanti ad un’evidenza scientifica siamo stati in grado di avere opinioni discordanti (ai massimi livelli) e quando abbiamo avuto l’umiltà di applicare il principio di autorità, i virologi se le davano di santa ragione. Oppure all’invasione militare russa in Ucraina, con le opinioni che oscillano tra il pacifismo di gandhiana memoria e il becero interventismo nixoniano a seconda delle fasi lunari.
E in effetti quello che c’è da capire di tutta questa storia è che nessuno ci ha capito un bel niente. Perché non ci aveva capito niente Akutagawa – che scriveva cose incredibili –, meno che meno Kurosawa – che per altro ci ha fatto pure un gran film – e chi vi scrive meno di niente.