Cinema

The Menu di Mark Mylod

Il film Mark Mylod mette in scena un sanguinoso scontro tra opposti che prende forma nel corso di una cena stellata commentato per noi da Paolo Colucci

Compito ingrato di chi vi scrive è recensire negativamente un film. Se a doverlo fare per ben tre volte con delle pellicole cucite a doppio filo tra di loro – che si tratti di un nuovo filone? – è il vostro affezionato recensore, diritto di chi legge è l’esigere una spiegazione adeguata e chiara. 

Siete spersi e apatici dopo una giornata di studio o lavoro, davanti alla home di Netflix, Disney+ ecc., e avete solo voglia di staccare il cervello per un paio d’ore prima di andare a dormire. Scrollate il vostro Instagram o una buona pagina di cinema in cerca di qualche suggerimento finché, non trovate questo verbosissimo articolo in cui si dice che piuttosto che guardare The MenuGlass Onion e Triangle Of Sadness fareste meglio a rivedere per l’ennesima volta un film di cui conoscete le battute a memoria. 

Sentir dire male di qualcuno è inibire all’incontro ma dopo aver visto questa tripletta cinematografica occorre una sincera presa di posizione. 

Cos’hanno in comune una commedia con qualche tocco di horror, un giallo canonico a tratti demenziale e un dramedy di cui tempo fa abbiamo già sprecato abbastanza parole? 

Slavoj Žižek in un articolo tradotto su Internazionale alcune settimane fa – dal titolo “Tassare i ricchi non basta” – sostiene che Hollywood si è adattata a questa recrudescenza della vecchia lotta di classe che ritorna come la fenice nell’epoca che stiamo attraversando. Commercializzare la lotta di classe. Geniale.

Come si fa? Basta prendere una manciata di ricchi con relativi scheletri d’armadio e frullare il tutto all’interno di un contesto tanto folle quanto drammatico. Il risultato è una sorta di spezzatino di nababbo in salsa neomarxiana, una ribollita che non ha niente a che vedere con l’odio sociale (lo solletica ma non lo evoca sul serio), né con il pulp tarantiniano o il surreale lynchano – ossia, con D.F. Wallace, quel “tipo particolare di ironia dove il molto macabro e il molto banale si combinano in maniera da rivelare la corrispondenza continua dell’uno dentro l’altro”. 

Alla fine scegliete di vedere quello che passa il convento, un lungometraggio con un cast stellare (Ralph Finnes e Anya Taylor Joy) e una trama che si può riassumere così: “Una giovane coppia in un esclusivo ristorante che sorge su un’isola dove lo chef ha messo a punto un costosissimo e sontuoso menù. Ma alcune scioccanti sorprese attendono i clienti del locale…”. The Menu è appunto un susseguirsi di dettagli disturbanti e suoni intenzionalmente pacchiani – come quello di coltelli sguainati in continuazione – che ricordano certe brutte prove del cinema asiatico. Rumoristi a parte, la storia dello chef frustrato che decide di vendicarsi del mondo non porta veramente a nulla, e sembra che il regista voglia disfarsene intasando lo svolgimento di inutili espedienti comici e parentesi macabre per distoglierci dalla banalità della vicenda. Anche l’ultima scena che avrebbe potuto essere un buon finale aperto (alla vecchia maniera), con la protagonista che scampa fortunosamente a una morte annunciata, è di una noia mortale. Sembra assurdo doverlo specificare, ma la fotografia e il cast di un film non sono tutto.

Il discorso è analogo per Triangle Of Sadness, lungometraggio che comincia col botto per poi naufragare rovinosamente poco prima della metà. Non si contano i cliché, per via di scelte di una produzione che evidentemente ha deciso di risparmiare sulla sceneggiatura e investire su una messa in scena anonima.

Problema inverso è invece quello di Glass Onion, sequel del fortunato Knives Out, che prosegue il progetto ambizioso di Rian Johnson alla circa del giallo perduto. Il regista tenta di bissare il successo del primo film ma si perde in un mare di minuzie narrative. Salterà all’occhio di ogni amante del genere il citazionismo spicciolo – quasi a rivendicare l’appartenenza a una scuola che è già confluita in altri mille sottogeneri –, e a quello di un qualunque cinefilo l’abuso di CGI che rende il tutto meno credibile di quanto non sia già.

Insomma, un fiasco. Ma c’è qualcosa che in Glass Onion ci aiuta a comprendere meglio perché registi esperti come Mylod, Ostlund e Johnson abbiano commesso questo passo falso – che per due di loro coincide col primo.

La cipolla di vetro, stratificata e trasparente, al centro del lussureggiante giardino del
miliardario interpretato da un opaco e stanco Edward Northon, la dice lunga sul vedo-non-
vedo che attraversa tutta la trama. Come per il Menu di Mylod, si parte con l’assembramento
alla “Dieci piccoli indiani” ma questa volta in piena pandemia, su un’isola greca di proprietà del
magnate in stile Elon Musk. Poi i vecchi amici geniali, legati tra loro da interessi e dissapori,
come da manuale, vengono smascherati delle loro falsità e nefandezze. Poi l’espediente delle
gemelle che richiama The Dark Mirror di Siodmak, la proverbiale pistola čechoviana – che se
c’è prima o poi sparerà – e il finale drammatico ribaltato in una risoluzione caotica – che
scricchiola più della cristalliera del padrone di casa.

Qualcuno, ingenerosamente, ha parlato di “film idiota” fatto apposta per un pubblico dalla
bocca buona. Ad ogni modo questo giallo, che, come da tradizione, non ha la pretesa d’essere
un capolavoro del cinema, ci dimostra quanto siamo distratti mentre Northon inventa parole
sofisticate per darci a bere le sue mitiche gesta imprenditoriali. Che siamo così stupidi da
credere che un nababbo qualsiasi possa prendere in prestito la Monna Lisa e mettersela in
casa e, soprattutto, così ingenui da credere che una pallottola possa fermarsi nell’agenda che
portiamo nel taschino.
Ma, cosa che fa alquanto ridere, che esista gente ricca che vende ai poveri film su storie di
ricchi che falliscono. Come a dire che la mobilità sociale è roba da cinema e Netflix un
anestetico per lavoratori poveri.

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