Che fine faranno i piccoli paesi? Risponde l’antropologo Giuseppe Melillo
I piccoli paesi sono sempre più al centro delle discussioni social. Molte le ricette per favorirne la valorizzazione. Ne parliamo con l'antropologo Giuseppe Melillo.

I piccoli paesi dominano la scena delle discussioni social. Tutti a proporre sistemi di valorizzazione e di recupero, ma esattamente quando diciamo “paese” di cosa stiamo parlando?
A queste e altre domande ci ha risposto, mentre è a pranzo, Giuseppe Melillo, antropologo, scrittore ed esperto di sviluppo locale. Al tavolo con lui un bicchiere di vino bianco e un gruppo di colleghi che aspettano l’arrivo della prima portata.
Da poco alle stampe il suo ultimo lavoro “Mondo è stato e mondo sarà” edito da Edizioni Hermaion.
Giuseppe cos’è un paese?
E’ la stessa cosa di ieri. Un luogo che permetteva alle persone di stare insieme, auto proteggersi e autosostenersi. Insieme si rispondeva a bisogni comuni, bisogni che oggi sono cambiati.
Cosa manca nei paesi oggi?
Faccio dei rapidi esempi, le caserme vengono chiuse e il bisogno di sicurezza inizia ad emergere, le strutture sanitarie vengono accorpate e i bisogni sanitari non trovano più risposta. Le scuole vengono chiuse e nascono così le multi classi o peggio ancora i bambini vengono messi sui bus per andare a scuola, percorrendo diversi chilometri.
Gli stiamo dicendo che per formarsi è necessario che vadano altrove, altrove dal luogo dove abitano, in pratica emigrare.
Perché i paesi perdono i loro abitanti?
Perché si preferisce vivere in luoghi dove si ricevono servizi, luoghi con una buona vocazione commerciale dove arrivano merci, persone e i servizi,
Chi ha portato alla fine dei paesi?
Molto è dovuto dai processi di razionalizzazione dei servizi pubblici, vedi la chiusura dei tribunali nelle aree interne per il contenimento dei costi, un tipo di politica che non ha favorito la permanenza nei paesi, così come la chiusura delle strutture ospedaliere e di altri servizi.
Che fine faranno allora?
Noi siamo abituati a pensare che la vita sia eterna, ma non è così. Le nuove strade si spostano, non sono sempre le stesse e così si spostano anche le persone, le merci e l’economia. I paesi sopravviveranno se saranno guidati da bravi amministratori in grado di comprendere la loro vocazione.
Turistica?
Diciamo che la narrazione turistica dei borghi non può trasformarsi in semplice paesologia, è impossibile guardare ai paesi solo sotto l’aspetto turistico e sentimentale per vederli rinascere.
Quindi le realtà che promuovono gli alberghi diffusi?
L’albergo diffuso non può essere una destinazione di viaggio, chi si muove è alla ricerca di una particolarità, un’idea sempre più inflazionata che non porterà turisti.
Scartata l’idea dei paesi turistici cosa ci resta?
I paesi devono sviluppare la loro energia generativa, partendo da quello che sono in grado di produrre, immagino le economie legate al territorio come l’agricoltura, l’artigianato o quella del salotto. Allo stesso tempo sarebbe necessario un investimento pubblico sui servizi e sul personale pubblico. I piccoli comuni non possono vivere con uno o due dipendenti chiamati a svolgere qualsiasi attività.
Ma perchè ora si parla tanto dei paesi?
I paesi sono come quel moribondo dove si alternano tanti medici, tutti che fanno prognosi e pochi in grado di dare diagnosi.
La verità che alcuni paesi sono destinati a vivere e altri a morire.
Ma quale sarà il mondo migliore punto dove vivere?
Il mondo migliore per me non è quello oltreoceano, ma quello quotidiano fatto di rapporti, di prossimità, di relazioni con chi ti è vicino.
Cosa manca per realizzarlo?
DI sicuro l’ascolto e poi la fiducia.
Diciamo che al sud la mancanza di fiducia è stato definito un elemento caratteristico delle nostre culture.
Ci hanno detto come eravamo, leggendoci con le loro chiavi di lettura e non con le nostre, sarebbe utile guardarci con un occhio diverso, il nostro.