Killers of the Flower Moon
La recensione di paolo Colucci dell'ultimo film di Martin Scorsese, “Killers of the Flower Moon”
Dimenticate i bravi ragazzi di Little Italy, coi loro traumi e i fallimentari tentativi di redenzione. Dimenticate i Rolling Stones, sparati sotto sequenze violente e comiche. Dimenticate tutto quello per cui Scorsese è diventato famoso e rivedrete la rapacità degli uomini de “Il petroliere”, le scene più crude di “C’era una volta in America”, la spirale di dannazione di “Quarto potere”.
Killers of the Flower Moon è stato pensato come una rappresentazione teatrale, un dramma coi suoi atti densi, scanditi dalla interpretazione impeccabile di Robert De Niro, il diavolo che detta le regole per tutta la storia. Il tema degli indiani arricchiti, che ribalta la classica narrazione del vecchio West era una vicenda a cui Scorsese non ha saputo resistere. Il regista ormai ottantunenne mette in scena la storia degli indiani Osage che nell’Oklahoma, all’inizio del secolo scorso, si ritrovano proprietari di una notevole quantità di petrolio. I bianchi non possono che ronzare intorno a queste opulente divinità della prateria come meschini parassiti. Tra questi – e forse il più improbabile – c’è Ernest Burkhart\Di Caprio che scende dal treno dopo un piano sequenza formidabile. Tanto basta per tuffarsi in più tre ore di film, tanto lunghe quanto ineccepibili.
Una lezione di cinema di estrema attualità considerato che appena un mese fa Scorsese tuonava in un’intervista a GQ vaticinando la morte dell’Industry e di come si sentisse solo – ma comodo – lasciato in un angolo a badare alle sue cose mentre artisti innovativi, ben più giovani di lui, vengono relegati alla categoria “indie”. Come se il cinema più visionario e creativo fosse fermo ai blocchi di partenza per oscure quanto folli dinamiche di mercato. Ma la storia delle avanguardie, si sa, è sempre stata piena di mal di pancia.
Ad ogni modo Killers of the Flower Moon non è affatto un film testamentario. Semmai un testamento aperto ai nuovi registi, a quelli indipendenti da cui il maestro sembra aver imparato molto. Dice che il bisogno di cambiare, di rinnovare il linguaggio, è l’unico modo per sopravvivere in arte. Progredire, alla fine, è proprio questo. Il progresso sta nella sperimentazione intelligente di chi ha un rapporto critico con la propria storia – e quella del cinema – coltivando una memoria autentica dei modelli senza rinunciare a un dialogo vero con le istanze del presente. Scorsese questo lo sa fare molto bene.