Cinema

Euphoria è ufficialmente la serie più vista su HBO

La nota serie tv vista e spiegata per noi da Paolo Colucci

Con il finale della seconda stagione Euphoria è ufficialmente la serie più vista su HBO dopo Game of Thornes. Un risultato insperato per questo teen-drama girato splendidamente.

Dopo la prima stagione del 2019, per il duo Levinson-Zendaya, quella appena conclusa si è dimostrata la “prova del nove”. Lui, figlio d’arte venuto su tra l’accademia e i set del padre, ha fatto le esperienze necessarie per scrivere un soggetto così autentico. Lei, l’ennesima promessa dello star-system Disney, piena di talento e di grazia, si cimenta anima e corpo in questo progetto: voce narrante, protagonista, produttrice e, come se non bastasse, canta anche una parte nel tema della serie. Non bisogna nascondere che il sensazionalismo che ha accompagnato l’uscita di questo “secondo atto” è dovuto in gran parte proprio a lei. Ma vale la pena soffermarsi sul packaging della sua ultima fatica. Non si tratta solo di un dramma adolescenziale in salsa post-moderna. C’è anche del buon gusto.

Quello che colpisce è il modo in cui la musica abbraccia le immagini. Ne è passato di tempo da quando il primo adolescente si è messo le cuffie nelle orecchie e ha cominciato a camminare in un film. Qui c’è la playlist di Levinson che dialoga con le disavventure di questi vitelloni californiani. Il tutto con accuratezza e ironia: basti pensare a Zendaya\Rue e Hunter Schafer\Jules che ballano su I was dancing in the lesbian bar di Jonathan Richman in camera di Elliot che intanto strimpella la chitarra. Poi il padre di Nate, il signor Jacobs, che in preda ad una crisi esistenziale va ubriaco sulla sua vecchia jeep safari al gay-bar dei tempi andati a ritmo di Depeche Mode e INXS. Ma soprattutto c’è il soul di Bobby Womack, Otis Redding, Ben E. King; il piano di Bill Evans a chiudere un episodio; la chitarra di “She Brings the Rain” sotto le prime gocce di un temporale estivo. Insomma, se la storia si mantiene a debita distanza da American Pie e Sex Education è anche merito della musica. 

Qualche malpensante avrà notato la scelta attenta di un cast rappresentativo di quasi ogni gruppo sociale, religioso, razza, orientamento sessuale, ecc. Ebbene, questo fa sí che i personaggi ne escano più profondi al susseguirsi di ogni ritratto, episodio dopo episodio. Non un escamotage politicamente corretto, bensì la Winesburg di Sherwood Anderson nell’America di oggi: multiculturale, sfibrata, divisa. È evidente che la stesura di un soggetto del genere – ispirato a un’omonima serie israeliana riempita di tratti autobiografici – sia stato un processo catartico oltre che creativo. Non un semplice intreccio di storie di sesso, droga e traumi infantili. C’è un realismo esasperato che sconfina ora nel grottesco ora nel sublime. In una scena c’è il sadismo di un certo Scorsese, in quella dopo il lirismo del primo Sorrentino. Una resa dei conti tra lo spettatore e le ferite dell’adolescenza. In questo senso la messa in scena dello spettacolo scritto da Lexi\ Maude Apatow è la chiave di lettura dell’intera vicenda.

La sceneggiatura è una scienza esatta. E ce lo dimostrano i due speciali tra prima e seconda stagione. Dialoghi serrati, lunghe inquadrature fisse che lasciano sciogliere il personaggio nella storia che ci sta raccontando. Sam Levinson, reduce dall’agrodolce Malcolm&Marie, aveva già dato una prova del suo tempismo – si è trattato del primo film del post-pandemia – e della sua tecnica – un lungometraggio a due voci in bianco e nero girato in 35mm –. Nello studio della psicologa e al tavolo del bar tornano utili la lezioni di Cassavetes (Una moglie), Polański (Carnage) e McCarthy (Sunset Limited, da cui il film di Tommy Lee Jones).

Cosa ci ricorderemo di questa serie-evento? Gli attori troppo cresciuti? Le sceneggiate da ghetto-diva delle ragazze? La violenza gratuita del più piccolo? La dipendenza di Rue? Il volto inespressivo del playboy maledetto? Le tresche trans-bis-cis-gender finalmente sdoganate?

Forse rimarranno le tante porte chiuse che si susseguono nella serie. Picchiate forte per avere una dose, per reclamare un’attenzione da un amante traditore, per salvare un fratello o una figlia dall’autodistruzione. I “grumi” che emergono da questo dramma corale ambientato nella provincia americana sono i drammi della generazione Z. Sono i ragazzi e le ragazze dal futuro incerto che, come Icaro, volano verso uno status ideale per poi abbandonarsi all’abisso. Chi ha la fortuna di capire che ciò che conta è solo l’ideale, allora si arma di coraggio e prende il largo. Come Rue, che si allontana a poco a poco dalla narrazione del villaggio. Sembra non ci sia modo di rammendare la sua vicenda con quella del coro di voci che l’ha accompagnata per tutta la storia. Si ripete tra sé il mantra: “Il pensiero di essere una brava persona mi spinge ad essere una brava persona”. La sua è, per dirla con un verso dei The National, “un’altra non innocente ed elegante caduta/nella non magnifica vita degli adulti” (“another un-innocent, elegant fall/Into the un-magnificent lives of adults”).

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